In un altro post abbiamo riportato il capitolo “L’imposta: mezzo per creare i poteri dello stato” tratto dal libro “L’anarchia e la scienza moderna” di Kropotkin. Oggi riportiamo il capitolo successivo ” L’imposta: mezzo per arricchire i ricchi”:
È così comoda l’imposta! Gli ingenui – i «cari cittadini» dei periodi elettorali – sono stati indotti a vedere nell’imposta il mezzo di compiere le grandi opere civilizzatrici, utili alla nazione. Ma i governi sanno perfettamente che l’imposta offre loro il più comodo mezzo per fare le grandi fortune a spese delle piccole, per impoverire le masse ed arricchire i pochi, per meglio assoggettare il contadino ed il proletario al fabbricante ed all’agiottatore, per incoraggiare una industria a profitto d’un’altra, e tutte le industrie in generale a spese dell’agricoltura e sopratutto del contadino o di tutta la
nazione. Se si tentasse di far votare domani alla Camera 50 milioni di lire a profitto dei grandi proprietari fondiari (come l’ha fatto Salisbury in Inghilterra, nel 1900, per ricompensare i suoi elettori conservatori), tutta la
Francia griderebbe come un sol uomo, ed il ministero sarebbe immediatamente rovesciato. Ebbene, per mezzo dell’imposta si fanno passare gli stessi cinquanta milioni dalle tasche dei poveri in quelle dei ricchi, quasi senza che quelli si accorgano del gioco. Nessuno grida, protesta, e lo stesso fine è raggiunto a meraviglia. La funzione dell’imposta non è neppure ben compresa da coloro stessi che fanno dello studio delle imposte la loro specialità.
È così semplice! Basta, per esempio, gravare di qualche centesimo addizionale il contadino, il suo cavallo, il suo carro o le sue finestre, per rovinare di colpo delle decine di migliaia di famiglie d’agricoltori.
Coloro che stentavano già tanto per cavarsela appena, coloro che il minimo urto poteva già rovinare e relegare nei ranghi del proletariato, sono schiacciati questa volta da una leggera addizione all’imposta. Essi vendono il loro pezzo di terra e se ne vanno verso la città, offrendo le loro braccia ai proprietari delle officine. Altri vendono il loro cavallo e si mettono a lavorare accanitamente colla vanga nella speranza di rifarsi. Ma un nuovo aumento d’imposta che si avrà certamente fra qualche anno, porterà loro il colpo di grazia; essi diventeranno proletari alla loro volta.
Questa proletarizzazione dei deboli fatta dallo Stato, dai governanti, avviene continuamente, d’anno in anno, senza far gettare alte grida a chicchessia, eccettuati i rovinati, la cui voce però non arriva alle orecchie del gran pubblico. Essa si è prodotta su grande scala durante questi ultimi quarant’anni in Russia, sopratutto nella Russia centrale, dove il sogno dei grandi industriali di creare un proletariato, si è realizzato alla sordina, precisamente per mezzo dell’imposta, mentre se si fosse cercato di rovinare qualche milione di contadini mediante la legge e con un sol tratto di penna, si avrebbero avute delle proteste generali, anche in Russia, sotto un governo assoluto. L’imposta ha compiuto poco a poco ciò che il legislatore non avrebbe osato fare apertamente.
Dopo ciò gli economisti che si qualificano di «scientifici», vengono a parlarci di leggi «stabilite», di sviluppo economico, di «fatalismo capitalista», della sua «negazione di sè stesso» – quando un semplice studio
delle imposte spiegherebbe da solo una buona metà di ciò che attribuiscono alla supposta fatalità delle leggi economiche. La rovina e l’espropriazione del contadino, come è stata compiuta in Inghilterra nel XVII secolo, e che Marx aveva chiamato per ciò «accumulazione capitalistica primitiva», continua anche ai giorni nostri, d’anno in anno, per mezzo dello strumento così facile dell’imposta.
Lungi dal crescere secondo le leggi immanenti di accrescimento interno, la forza del capitale sarebbe malamente paralizzata nella sua estensione, se non avesse al suo servizio lo Stato, che, da una parte, crea sempre dei nuovi monopolii (miniere, ferrovie, acqua potabile, telefoni, misure contro le associazioni operaie, azione contro gli scioperanti, educazione privilegiata,
ecc., ecc.) e, dall’altra, edifica le fortune e rovina la massa dei lavoratori per mezzo dell’imposta.
Se il capitalismo ha aiutato a creare lo Stato moderno, è pure, non dimentichiamolo, lo Stato moderno che crea e nutrisce il capitalismo.
Adamo Smith, nel secolo passato, aveva già segnalato questa potenza dell’imposta; ma lo studio, di cui aveva indicato le grandi linee, non fu proseguito, e per dimostrare oggi questa potenza dell’imposta, bisognerà
trovare i nostri esempi un po’ dappertutto.
Così, prendiamo l’imposta fondiaria, che è una delle armi più potenti in mano dello Stato. L’ottavo rapporto dell’Ufficio del lavoro dello Stato d’Illinois offre una gran copia di prove per dimostrare come – anche in uno
Stato democratico – delle fortune di milionari furono fatte, semplicemente per il modo con cui lo Stato tassava la proprietà fondiaria a Chicago.
Questa vasta città si è ingrandita a sbalzi, raggiungendo la cifra di 1.500.000 abitanti in cinquanta anni. Ebbene, colpendo d’imposta la proprietà fabbricata, mentre la proprietà non fabbricata, anche nelle vie più centrali della città, non era tassata che leggermente, lo Stato creò delle fortune di milionari.
Dei pezzetti di terra nella tale grande via, che valevano, cinquant’anni fa, 6.000 lire il decimo di ettaro, hanno raggiunto oggi il valore di 5.000.000 a 6.000.000 di lire.
È ben evidente che se l’imposta fosse stata «metrica», cioè per metro quadrato, con o senza fabbricato, o se la terra fosse stata municipalizzata, giammai simili fortune avrebbero potuto accumularsi. La città avrebbe
approfittato dell’accrescimento della popolazione, sgravando di altrettanto le case abitate dagli operai. Mentre, al contrario, poichè sono le case a sei e a dieci piani che sopportano il grosso delle imposte, l’operaio è obbligato a lavorare per permettere ai ricchi di diventare ancor più ricchi. In compenso poi, è costretto ad abitare in tuguri malsani, che, lo si sa abbastanza, arrestano perfino lo sviluppo intellettuale della classe che li abita, per lasciarla meglio in balia del fabbricante. L’Eighth Biennal Report of the Bureau of Labor Statistics of Illinois Taxation, 1894, è pieno di notizie
interessantissime a questo riguardo.
Oppure, prendiamo l’arsenale inglese di Woolwich. Un tempo, le terre sulle quali si è allargata la città di Woolwich, non erano che una garenna abitata da conigli. Dopo che lo Stato vi ha costruito il suo grande arsenale, Woolwich ed i comuni vicini sono diventata una città popolosa, dove 20.000 uomini lavorano nelle officine dello Stato per fabbricare degli arnesi di
distruzione. Un giorno, nel giugno 1899, un deputato domandò al governo di aumentare i salari degli operai. «E perché?», rispose l’economista ministro Goschen. «Sarebbe tutto assorbito dai proprietari fondiari!… Durante questi ultimi dieci anni i salari sono cresciuti del 20 per cento.
L’aumento dei salari (cito verbalmente) non ha avuto altro effetto che di far intascare una più forte somma dai proprietari fondiarii» (già milionari). L’argomento del ministro era evidentemente specioso, ma il fatto che i
milionari assorbono la maggior parte degli aumenti di salario merita di essere rilevato. Ed è perfettamente esatto.
D’altra parte, ad ogni momento, agli abitanti di Woolwich, come a quelli di tutte le grandi città, viene intimato di raddoppiare e triplicare le imposte per fogne, canali e selciati della città, che da infetta è diventata oggi salubre. E, grazie al sistema d’imposta fondiaria e di proprietà in vigore, tutte queste somme hanno servito ad arricchire di altrettanto i proprietari fondiari.
«Costoro rivendono al minuto ai contribuenti i benefici che essi hanno intascato dai miglioramenti sanitari, pagati da questi stessi contribuenti», dice, ed è perfettamente vero, il giornale dei cooperatori di Woolwich, Comradeship.
Non è tutto. Si costruisce a Woolwich una chiatta a vapore per traversare il Tamigi e legare Woolwich con Londra. Dapprima era un monopolio che il Parlamento creava a favore di un capitalista, autorizzandolo a stabilire una comunicazione mediante la chiatta a vapore. Poi, dopo un certo tempo, siccome il monopolista faceva pagare troppo caro il passaggio, la municipalità riscattò al monopolista la concessione avuta.
Il tutto costò ai contribuenti 5.500.000 lire in otto anni. Ma allora, ecco un piccolo pezzo di terra, in vicinanza della chiatta, aumentare il valore di 75.000 lire, che evidentemente sono intascate dal proprietario
fondiario.
E poiché questo pezzo di terra continuerà sempre a rincarare, un nuovo monopolio viene stabilito, un nuovo capitalista è aggiunto alla legione degli altri, già creati dallo Stato inglese.
Ma ecco che i lavoratori delle officine dello Stato di Woolwich finiscono per costituire un sindacato, ed a forza di lotte riescono a mantenere i loro salari ad unlivello più alto che in altre officine dello stesso genere.
Essi fondano anche una cooperativa e diminuiscono così di un quarto le loro spese di mantenimento, eppure, «la migliore parte della messe» va ancora ai signori!
Quando uno di questi si decide a vendere un pezzo dei suoi terreni, il suo agente pubblica testualmente nei giornali locali: «Gli alti salari pagati dall’arsenale agli operai, grazie ai loro sindacati, e l’esistenza a Woolwich
di una cooperativa prospera, rendono questo terreno eminentemente adatto per costruire delle case operaie».
Ciò che vuol dire: «Voi potete pagar caro questo pezzo di terra, signori costruttori delle case operaie.
Voi vi rifarete largamente e facilmente sugli affitti». E si paga, si acquista per costruire, si costruisce, per ripagarsi più tardi sull’operaio.
Ma ciò non è tutto. Ecco che malgrado difficoltà inaudite e un lavoro enorme, alcuni entusiasti riescono a fondare in questa stessa Woolwich una città cooperativa di casette operaie. Il terreno viene comperato e quindi prosciugato, spianato, canalizzato e solcato di vie da una cooperativa. Le varie parcelle sono poi vendute agli operai, che, sempre grazie alla cooperativa, possono costruire a buon mercato le loro casette. I fondatori si
rallegrano, è un successo completo, ed essi cercano a quali condizioni potrebbero comperare un ettaro vicino di terreno per ingrandire la loro città cooperativa. Essi avevano pagato il loro terreno in ragione di 37.500 lire l’ettaro (500 sterline l’acro); ora si chiedono loro 75.000 lire per l’ettaro vicino. Perché? «Ma, signori, la vostra città progredisce benissimo, è dessa che ha raddoppiato il valore di questo terreno».
Perfettamente! Poiché lo Stato ha costituito e mantiene il monopolio fondiario in favore del Signor Tale, è per arricchire questo signore e rendere l’estensione della loro città operaia impossibile, che essi
hanno lavorato.
«Viva lo Stato!»
«Lavora per noi, povero animale, che credi di migliorare la tua sorte con delle cooperative, senza osare di toccare nello stesso tempo alla proprietà,
all’imposta, allo Stato!»
Ma senza andare a Chicago o a Woolwich, non vediamo noi in ogni grande città, come lo Stato, solamente col colpire d’un’imposta ben più elevata la
casa a sei piani, abitata da operai, che non il palazzo privato del ricco, stabilisce un privilegio formidabile in favore di quest’ultimo? Gli permette d’intascare il plusvalore dato alla sua proprietà dall’ingrandimento e dall’abbellimento della città – e sopratutto dalla casa a sei piani, dove brulica la miseria che abbellisce la città con dei salari da mendicanti!
E ci si stupisce che le città ingrandiscano così rapidamente a detrimento delle campagne. Non si vuol vedere che tutta la politica finanziaria del XIX secolo, è stata volta a gravare l’agricoltore – il vero produttore, poiché egli riesce ad ottenere dal suolo tre, quattro, dieci volte più di prima – in favore delle città, cioè dei banchieri, degli avvocati, dei commercianti e di tutta la
banda dei gaudenti e dei governanti.
E non ci si dica che questa creazione del monopolio in favore dei ricchi non sia l’essenza stessa dello Stato moderno e delle simpatie che gode fra i ricchi e coloro che sono stati educati dalle scuole dello Stato. Ecco un
buon esempio recente dell’uso delle imposte in Africa. Si sa che l’obbiettivo principale della guerra dell’Inghilterra contro i boeri fu quello di abolire la
legge boera, che non permetteva di obbligare i negri a lavorare nelle miniere d’oro.
Le Compagnie inglesi fondate per lo sfruttamento di queste miniere non ne
ritraevano i benefici sui quali contavano.
Ed ecco ciò che il conte Grey ebbe a dire al Parlamento: «Voi dovete abbandonare per sempre l’idea di sviluppare le vostre miniere col lavoro dei bianchi. Bisogna trovare i mezzi per condurvi i negri… Ciò si potrebbe fare, per esempio, per mezzo di un’imposta di 25 lire per capanna di negri, come noi già lo facciamo al Basutoland, ed anche con una piccola imposta del lavoro (18 lire), prelevata su quei negri che non produrranno un certificato di avere lavorato quattro mesi (all’anno) presso bianchi»
(Hobson, The War in South Africa, p. 234).
Così la servitù che non si osava introdurre apertamente, s’introduceva per mezzo dell’imposta.
Supponete ogni miserabile capanna colpita da 25 lire d’imposta, e la servitù è stabilita! Rudd, l’agente di Rhodes, metteva i punti sugli i, scrivendo: «Se col pretesto della civiltà, noi abbiamo sterminato da 10.000 a 20.000 dervisci coi nostri cannoni Maxim, certamente non sarà una violenza forzare gl’indigeni dell’Africa del Sud a dare tre mesi dell’anno ad un lavoro onesto».
Sempre i due o tre giorni alla settimana! di lì non si esce. Quanto a pagare il «lavoro onesto», Rudd si esprimeva così: 60 o 70 lire al mese, è fare del
«morbido sentimentalismo». Il quarto sarebbe largamente sufficiente (Ibid., pag. 235). Così il negro non si arricchirà e resterà servo. Bisogna prendergli con l’imposta ciò che guadagna come salario; bisogna che
non possa riposarsi. Ed infatti, dopo che gli inglesi sono diventati padroni
del Transvaal, e dei «negri», l’estrazione dell’oro è salita da 313 milioni a 875 milioni di lire. Circa 200.000 «negri» sono costretti a lavorare ora nelle miniere per arricchire le compagnie che furono le cause prime della
guerra.
Ma ciò che gli inglesi fecero in Africa per ridurre i negri alla miseria e imporre loro il lavoro forzato, lo Stato l’ha fatto per tre secoli in Europa coi contadini, e lo fa ancora per imporre il lavoro forzato agli operai
della città.
E gli universitari ci parlano delle «leggi immutabili» dell’Economia politica!
Restando sempre nel dominio della storia recente, si potrebbe raccontare un altro colpo ben preparato col mezzo dell’imposta. Si potrebbe intitolarlo: «Come il Governo Britannico abbia tolto 4.600.000 lire alla nazione, per darle ai grossi Mercanti di Tè – farsa in un atto». Sabato 3 marzo 1909, si veniva a sapere a Londra che il governo avrebbe aumentato di due pence (20 centesimi) per libbra (450 grammi) il dazio sul tè.
Subito, sabato e lunedì, 22.000.000 di libbre di tè, che erano in dogana a Londra in attesa del pagamento della tassa, furono ritirate dai negozianti, pagando la vecchia imposta, e martedì il prezzo del tè nei magazzini di
Londra veniva dappertutto aumentato di due pence. Se noi non contiamo che i 22.000.000 di libbre di tè ritirate sabato e lunedì, abbiamo già un beneficio netto di 44.000.000 di pence, ossia di 4.583.000 lire, tolte dalle
tasche dei contribuenti e date ai negozianti di tè. Ma la stessa manovra fu fatta in tutte le altre dogane, a Liverpool, in Iscozia, ecc., senza contare il tè uscito di dogana, prima che fosse stato notificato l’aumento della
tassa.
Sono dunque una dozzina di milioni regalati dallo
Stato a quei signori.
La stessa cosa per il tabacco, la birra, l’acquavite, i vini, ed ecco i ricchi arricchiti di circa 25 milioni presi ai poveri! Dunque: «Viva l’imposta! Viva lo Stato».
E voi, figli dei poveri, imparate alla scuola primaria (i figli dei ricchi impareranno ben altro all’università), che l’imposta è stata creata per permettere a quei poveri cari campagnuoli di non aver più le corvées, sostituendole con un piccolo versamento annuale nelle casse dello
Stato. E dite a vostra madre, curva sotto il peso degli anni di lavoro e d’economia domestica, che vi si insegna così una gran bella scienza: l’economia politica!
Consideriamo, infatti, l’istruzione. Noi abbiamo progredito assai dall’epoca in cui il comune trovava egli stesso e una casa per la scuola, e l’istitutore. Allora, il saggio, il fisico, il filosofo si attorniavano di allievi volontari, a cui trasmettevano i segreti della loro scienza o della loro filosofia. Oggi noi abbiamo la cosidetta educazione gratuita, fornita a nostro spese dallo Stato;
noi abbiamo i licei, le università, l’Accademia, le società scientifiche sovvenzionate, le missioni scientifiche, e che so io.
Poiché lo Stato non domanda di meglio che di allargare la sfera delle sue attribuzioni, ed i cittadini non chiedono altro che di essere dispensati dal pensare agli affari d’interesse generale – di «emanciparsi» dai loro
concittadini, abbandonando gli affari comuni ad un terzo – tutto s’aggiusta a meraviglia.
«L’istruzione?» dice lo Stato, «son ben felice, signori e signore, di darla ai vostri figli! Per alleggerire le vostre cure, vi proibiremo financo d’occuparvi voi stessi d’educazione. Noi redigeremo i programmi, che non ammettono critica, ben inteso! Dapprima, noi abbrutiremo i vostri fanciulli con lo studio delle lingue morte e delle virtù della legge romana. Ciò li renderà
docili e sottomessi. In seguito, per togliere loro ogni velleità di rivolta, insegneremo loro le virtù dello Stato e dei governi, ed il disprezzo dei governati. Faremo loro credere che, avendo appreso il latino, diventano il sale della terra, il lievito di ogni progresso; che senza di loro
l’umanità perirebbe.
Ciò vi lusinga; in quanto ad essi, se ne convincono a meraviglia e diventano vanitosi in sommo grado. È quel che ci vuole. Noi insegniamo loro che la miseria delle masse è una «legge di natura», e saranno incantati d’impararlo e di ripeterlo. Modificando però l’insegnamento secondo il gusto variabile delle epoche, diremo loro che, sia per la volontà di Dio, sia per una «legge di bronzo», l’operaio impoverirebbe non appena cominciasse a star bene, poichè nella sua agiatezza si scorderebbe al punto d’avere dei figli. Tutta l’educazione avrà per iscopo di far credere ai vostri
ragazzi che fuori dello Stato Provvidenziale, non vi è salute! E voi applaudirete, non è vero?
«Poi, dopo aver fatto pagare dal popolo le spese di tutta l’istruzione, primaria, secondaria, universitaria e accademica, faremo in modo di serbare le parti migliori della torta del bilancio pei figli dei borghesi. E il
popolo, cotanto buono, inorgogliendosi delle sue università e dei suoi scienziati, non s’accorgerà nemmeno come noi erigeremo il governo in monopolio per coloro che possono pagarsi il lusso dei licei e delle università pei loro figli. Se noi dicessimo ai poveri di punto in bianco: Voi sarete governati, giudicati, accusati e difesi, educati ed abbrutiti dai ricchi nell’interesse dei ricchi, essi si rivolterebbero senza dubbio.
È evidente! Ma con l’imposta e qualche buona legge, ben «liberale», dicendo per esempio che bisogna avere subìto venti esami per essere ammessi all’alta funzione di giudice o di ministro, il popolo, buona pasta, troverà tutto ben naturale.
Ed ecco come, per successione di cose, quel governo del popolo, a mezzo di signori e ricchi borghesi, contro il quale il popolo si rivoltava un tempo, quando lo vedeva in faccia, si trova ora ricostituito sotto un’altra
forma, con l’assentimento e quasi con le acclamazioni del popolo, travestito dall’imposta!
Non parliamo dell’imposta militare, perché su di essa ciascuno dovrebbe già sapere che pensare. Quando mai l’esercito permanente non è stato il mezzo per tenere il popolo in schiavitù? e quando mai un esercito regolare
ha potuto conquistare un paese se urtava contro un popolo in arme?
Ma, prendete un’imposta qualunque, diretta o indiretta, sulla terra, sul reddito o sul consumo, per contrattare dei debiti di Stato, o col pretesto di pagarli (poiché essi non lo sono mai); prendete l’imposta per la guerra o per l’istruzione pubblica, analizzatela, guardate a che vi conduce da ultimo, e rimarrete stupiti dalla forza immensa, dall’onnipotenza da noi consentita ai
nostri governanti.
L’imposta è la forma più comoda pei ricchi per tenere il popolo nella miseria. Esso è il mezzo per rovinare delle classi intiere di agricoltori e di operai dell’industria, man mano che arrivano dopo una serie inaudita di sforzi ad accrescere un poco il loro benessere. Essa è nello stesso tempo lo strumento più comodo per fare del governo un eterno monopolio dei
ricchi.
Infine, permette sotto differenti pretesti di fabbricare le armi che serviranno un giorno a schiacciare il popolo, se si rivolterà.
Piovra dalle mille teste e dai mille tentacoli, come i mostri marini dei vecchi racconti, essa permette di avvolgere tutta la società e di canalizzare tutti gli sforzi individuali per farli convergere all’arricchimento ed al
monopolio governativo delle classi privilegiate.
E finchè lo Stato, armato dell’imposta, continuerà ad esistere, l’emancipazione del proletariato non potrà compiersi in alcun modo: né per la via delle riforme e neppure con la rivoluzione. Perché se la rivoluzione non schiaccia questa piovra, se non taglia le sue teste ed i suoi tentacoli, sarà strangolata dalla mala bestia. La rivoluzione stessa sarà messa a servizio del monopolio, come avvenne per la rivoluzione del 1793.
(Pietr A. Kropotkin)