Il problema del carcere e della sicurezza nel pensiero anarchico

Talvolta rabbrividisco, quando persino alcuni che si dicono anarchici (“anarchici” ancora confusi, forse) sostengono che “in certi casi il carcere è necessario”, ragionando allo stesso modo semplicistico degli statalisti che parlano di rieducazione o addirittura di pena di morte.

Rieducare a che cosa? Alla legge dello Stato? Essa è per l’appunto la legge del più forte. Paradossalmente, è la stessa legge del Sistema ad educare alla criminalità, essendo il Sistema nato sulla forza, sulla violenza e sul terrore politico. Chi non diventa “criminale” o non infrange le leggi dello Stato o non si ribella, diventa un bravo schiavo che sta comunque male nella prigione del Sistema, nella cosiddetta società civile, spesso costretto a utilizzare vari palliativi, (discorso che abbiamo già affrontato negli articoli “la droga non si combatte con la repressione” e “manifesto del movimento anarchico caudino”). Quando l’individuo muore a causa della droga o per suicidio, il popolo versa poi lacrime di coccodrillo, i giornalisti scrivono articoli pieni di retorica, gli intellettuali e le scuole fanno convegni in cui parlano di suicidi, di giovani, di droga e invitano a contattare sbirri e psicologi.

Alcuni sostengono che in galera dovrebbero andarci mafiosi e politici. Ma se questi finissero in galera – strumento dello Stato – significherebbe che, anche senza volerlo, si è costituito un nuovo gruppo di potere. Immaginiamo una rivoluzione anarchica: se, dopo (o durante) l’immaginaria rivoluzione, mettessimo in galera politici e mafiosi, saremmo noi i nuovi politici e i nuovi sbirri: saremmo di nuovo punto e a capo, come è già accaduto in ogni rivoluzione marxista-leninista.

Per trattare la questione del carcere, dato che a livello di rivoluzione siamo a zero, bisogna esaminare due punti di vista: il carcere in una possibile società anarchica e il carcere nella nostra società attuale e democratica.

In una società anarchica, chi “ruba”- giacché avremmo tutti il necessario per sopravvivere-, sarebbe da considerare un nuovo avido capitalista, un nuovo oppressore da combattere e da cui difendersi, proprio come dovremmo fare oggi nella società democratica per combattere il potere.

Errico Malatesta, ai suoi tempi, era convinto che se in una società anarchica ci fossero stati ugualmente criminali, assassini, stupratori, questi sarebbero necessariamente da considerare dei malati.

“[…]in colui che commette atti antisociali, non vedremmo già lo schiavo ribelle, come avviene al giudice di oggi, ma il fratello ammalato e necessitoso di cura” scriveva nel suo libro “L’anarchia il nostro programma”. All’apparenza, nessuna risposta più libertaria di questa. Tuttavia, oggi sappiamo che tale affermazione significherebbe dar ragione alla psichiatria e che in quel caso, la medicalizzazione forzata sarebbe delegata alla società, non più alle autorità. Ma sarebbe pur sempre una barbarie basata su una teoria lombrosiana. Ci siamo già occupati di questa questione nell’articolo precedente riguardo la psichiatria.

Quella risposta di Malatesta fu contestata da alcune personalità come l’anarchico individualista Enzo Martucci che riporta in un suo scritto questa riflessione: “voler curare, per forza, questi individui; volerli guarire ad onta della loro volontà, sarebbe come pretendere da un tubercolotico che si astenga dal fumo e dall’alcool per allungare la sua vita. “Ma a me non importa di morire prima – risponderà l’ammalato – purché possa ora soddisfarmi a modo mio. È meglio vivere ancora un solo anno, godendo, e non dieci soffrendo e rinunziando a tutto”. Vorrete costringere a salvarsi quelli che vorranno perdersi? Ma allora non saranno più essi padroni della loro esistenza. Non potranno disporne come meglio crederanno, e sentiranno come un male il bene che intenderete fare. Se la Clara di Mirbeau o i personaggi di Sade cercano di seviziarvi, sparate su loro. Ma lasciateli in pace e abbandonate l’idea di indurli al pentimento, in nome di Dio e della morale, o di curarli e guarirli, per la gloria della scienza e dell’umanità. Ed inoltre, è poi vero che tutti coloro che consumano un delitto sono malati, pazzi degni del manicomio e della doccia? Se la domanda la rivolgete alla scienza di Lombroso, questa vi risponde affermativamente. Vi definisce il crimine come un ritorno atavico. ” – scrive Martucci nel suo libro “La bandiera dell’Anticristo” (dal capitolo “Né galere né poliziotti).

Affermazioni come “sparate piuttosto su di loro, ma non curateli” fanno anch’essere rabbrividire di certo. Ma è paradossale che facciano rabbrividire coloro che credono sia meglio e meno violento rinchiudere una persona in una prigione e/o in un ospedale. Si dovrebbe innanzitutto riflettere sulla differenza tra l’individuo che assassina un oppressore e il potere che assassina l’individuo o un suo avversario politico: in poche parole non è uguale alla pena di morte.

Fatto sta che, come abbiamo già detto, con un trattamento sanitario obbligatorio si rischia comunque la morte o, peggio ancora, di fare ammalare davvero l’individuo.

Non a caso, oggi, gli stessi movimenti anarchici che si riconoscono nel programma di Errico Malatesta, hanno fondato dei collettivi antipsichiatrici e sanno che un criminale non è un malato da curare.

Su una cosa concordano ormai tutti, individualisti, collettivisti e stirneriani: dall’oppressore bisogna sempre difendersi, bisogna sempre essere pronti, magari cercando di metterlo in fuga e di non ammazzarlo, se questo non sta attentando alla nostra vita. La mentalità e l’educazione statalista, democratica e soprattutto cristiana può farci apparire la legittima difesa come una soluzione da leghisti. Non è così. Anche perché i leghisti e i fascisti legittimano la difesa della proprietà privata, che noi vogliamo abolire.

Mi fanno sorridere quelle persone che, scoperto che esistono delle comunità anarchiche, mi chiedono come fanno a difendersi se lì non c’è la polizia. Sarebbe molto più sensato invece chiedersi, come fanno a difendersi DALLA polizia.

“E se arriva un sociopatico che all’improvviso spara addosso alla gente”?

Ancora una volta si attribuiscono erroneamente la criminalità e la pericolosità alla cosiddetta fantomatica malattia mentale. Ci ritorna in mente il già citato esempio di Giorgio Antonucci riguardo la vicenda di Gaetano Bresci e Bava Beccaris: chi era il “sociopatico” o “malato di mente”? Gaetano Bresci che uccise il re oppressore? O Bava Beccaris che sparò sulla folla? Nessuno dei due. Ognuno di loro aveva le sue motivazioni per farlo: ricercare le motivazioni, non vuol dire giustificarle o condividerle, significa tentare di capirle.

Non esiste una persona che spara addosso alla gente senza motivo. Può essere ovviamente un motivo futile, può essere un motivo ovviamente non condivisibile, ma il motivo c’è. Sempre.

Ma se anche esistessero i cosiddetti sociopatici che sparano addosso alla gente: che cosa c’entra la polizia? Potrebbe forse impedire un massacro? Qualcuno potrebbe rispondermi che “vista la presenza della polizia, l’individuo ci penserebbe due volte prima di fare un massacro”, senza rendersi conto che in questo modo cade per l’appunto la teoria del soggetto che non sarebbe in grado di intendere e di volere.

Gli statalisti, affermano sempre che “senza la polizia sarebbe peggio”, perché non hanno ben compreso che occorrerebbe andare alle radici dei problemi per estirparle, non “curare i sintomi”, non nascondere i problemi in un carcere, non reprimere e punire anche chi si trova costretto a delinquere oppure influenzato dallo stesso sistema capitalista che ci educa ad avere di più e a prendercelo con la forza oppure al contrario a essere remissivi e pagarne comunque tutte le conseguenze che paghiamo noi tutti: anarchici e statalisti. Il carcere, si può dire, è una delle “soluzioni” comode ai problemi che provoca il Sistema stesso, insieme alla nostra cultura, la nostra educazione, dal moralismo sessuofobo che reprime i nostri istinti e provoca perversioni e trasforma il sesso – ciò che è un istinto naturale – in atti violenti, così come la stessa cultura del dominio (dice bene, in entrambi i casi, lo slogan femminista “lo stupratore non è malato ma figlio del sano patriarcato”). Si preferisce arrestare spacciatori e venditori di contrabbando, anziché cercare di capire perché c’è chi sceglie questo mestiere per sopravvivere e perché c’è gente che fa uso di droghe (abbiamo già detto che la droga non si combatte con la repressione, ma con la libertà e che un altro paradosso del sistema è combattere le droghe illegali e obbligare ad assumere quelle legali).  Noi anarchici lo diciamo sempre: non ci sono criminali da punire, ma le cause dei crimini eliminare. Ovviamente questo non conviene al Sistema, altrimenti dovrebbe autodistruggersi.

Immaginando invece, di nuovo un possibile mondo anarchico, oppure semplicemente una comune libertaria, dobbiamo comunque pensare eventualmente a come difenderci, non tanto gli uni dagli altri come temono gli statalisti, ma dai nuovi possibili oppressori.

Qui ed ora invece, di certo non basta eliminare il carcere. Bisogna, invece, cominciare a costruire una società completamente libera (non solo dal sistema, ma anche dai preconcetti, dal familismo, dal bigottismo, dal moralismo), dove tutti sono soddisfatti e si riduce al minimo la possibilità e l’incentivo di commettere atti criminali. Per fare questo, però, a mio avviso, bisognerebbe cominciare a liberarsi dall’educazione alla legalità a cui ci indottrinano fin dalla scuola, da quella religiosa a cui ci indottrinano fin dalla tenera età in famiglia. Bisogna dunque creare tante piccole o grandi comunità libere, basate sul mutuo appoggio e sulla libertà, senza la famiglia nucleare, senza i vincoli matrimoniali, con scuole libertarie e/o educazione parentale, anziché scuole statali o private. Continuare, come già si sta facendo da anni, a creare spazi di libertà, radio indipendenti e canali di controinformazione (oggi anche con l’aiuto della rete); terreni autogestiti con orto sinergico gestito insieme agli amici, fare autoproduzione il più possibile per boicottare il capitalismo e lo Stato e prepararci sempre a difenderci dalla sua violenza. Sappiamo infatti che lo Stato è sempre più violento e malvagio, perciò, per ogni passo avanti che faremo, esso proverà (e spesso riuscirà) a ostacolarci, ma noi dovremo resistere.

Come scrive ancora Colin Ward “L’istituzione più violenta della nostra società è lo stato, che reagisce con la violenza ai tentativi di sottrargli il potere. (Come diceva Malatesta, tu cerchi di fare le tue cose, quelli intervengono, e poi tu sei quello a cui vengono rimproverati gli scontri che ne derivano). Questo significa che quei tentativi sono sbagliati? Bisogna distinguere tra la violenza dell’oppressore e la resistenza degli oppressi” ( da Anarchia come organizzazione)

Noi anarchici, sia ora, sia nel mondo che potremmo costruire, dovremo sempre difenderci dall’oppressore, che sia un banale delinquentuccio, che sia lo Stato, che sia la Mafia, non fa alcuna differenza. Gli anarchici dovranno sempre combattere, individualmente e collettivamente, ogni forma di dominio con ogni mezzo, senza disdegnare nemmeno il metodo dei cosiddetti pacifisti e hippy, se pensano che possa essere efficace il metodo di lotta pacifico. Del resto, lo stesso Malatesta, che pacifista non era affatto, scriveva “Non saremo buoni da noi a mettere a dovere chi non rispetta gli altri? Soltanto, non li strazieremo, come si fa adesso dei rei e degli innocenti; ma li metteremo in posizione di non poter nuocere, e faremo di tutto per riportarli sulla dritta via” (dal libro “Fra contadini. Dialogo sull’anarchia”).

Come scrive, però, Colin Ward , senza allontanarsi tanto dall’affermazione di Malatesta“Naturalmente in ogni società, anche in quella meglio organizzata, ci saranno individui passionali, le cui azioni, qualche volta, potranno essere contrarie all’interesse comune. Ma al fine di prevenire anche queste possibilità, l’unica soluzione è quella di garantire sbocchi positivi al carattere passionale di costoro” (Anarchia come organizzazione).

Anche se il potere non sarà mai completamente distrutto, bisogna in tutti i modi cercare di inceppare i suoi ingranaggi e cercare di distruggere la maggior parte, per quanto possibile, delle cause dei crimini, fino a che non ci sarà più bisogno del carcere.

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